La terapia ė un percorso, generalmente breve, che consiste in una serie di incontri in cui si analizzano le cause e i comportamenti che stanno alla base delle difficoltà delle persone. Insieme al paziente si individuano strumenti e comportamenti adeguati alla realtà della persona più funzionali a soddisfare i suoi bisogni.
A cosa serve la terapia
La terapia è un percorso durante il quale si analizzano i comportamenti, gli stili comunicativi e il modo in cui la persona si mette in relazione con gli altri. Sono infatti spesso le relazioni il contesto in cui la persona esprime e manifesta il suo disagio. Modificare il modo di porsi in relazione e il modo di comunicare permette di migliorare le proprie relazioni e la propria qualità della vita.
«Mandiamo i bamboccioni fuori di casa»
Padoa Schioppa: con la Finanziaria misure che consentiranno ai giovani di affrancarsi dai genitori |
ROMA – L’attacco è ai «Tanguy» all’italiana, o in altre parole i «bamboccioni» (copyright Tps). Quelli che non se ne vogliono andare di casa e che magari, ora che la Finanziaria vedrà la luce, potrebbero affrancarsi dalla sottana di mamma. Né è seriamente convinto il ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa e nell’illustrare i benefici della futura manovra si applica in una filippica contro i ragazzi che stanno ancora alle dipendenze dei genitori. «Mandiamo i «bamboccioni fuori di casa», sintetizza con estrema brutalità e molta ironia Padoa-Schioppa nel corso dell’audizione davanti alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato. Il ministro fa così riferimento alla norma che prevede agevolazioni sugli affitti per i più giovani. «Incentiviamo a uscire di casa i giovani che restano con i genitori, non si sposano e non diventano autonomi. È un’idea importante», mette in evidenza il titolare del Tesoro. Parole che accendono subito il dibattito, scavando il fosso tra riformisti e massimalisti all’interno della maggioranza. |
Corriere della Sera (4 ottobre 2007) |
*** |
Nella mia attività di psicologa e psicoterapeuta mi è capitato spesso di lavorare con giovani tra i 27 e i 35 anni che sentivano la necessità di ritagliarsi uno spazio in cui mettere in discussione e rivedere modi di porsi in relazione e di vivere la loro realtà. I 30 anni rappresentano nella vita di un giovane un “compleanno speciale”, e segnano il passaggio da una giovinezza post adolescenziale, ancora molto incentrata sul presente, ad una giovinezza più adulta in cui diventa importante proiettarsi nel futuro. Spesso a questa età i giovani non hanno ancora elaborato un proprio progetto di vita stabile e questo è riconducibile a fattori di varia natura. Da un lato i mass media ci descrivono la generazione dei trentenni come mammoni, disinteressati ad uscire dalla famiglia di origine, incapaci di costruire relazioni significative che portino a legami stabili e duraturi. Dall’altro la precarietà della condizione professionale giovanile, il costo delle case alle stelle, le retribuzione spesso non commisurate al reale costo della vita e standard di vita sempre più elevati e difficili da raggiungere, rendono oggettivamente difficile rendersi autonomi e indipendenti dalla famiglia di provenienza. Tutto ciò genera incertezza e instabilità psicologica. I giovani si sentono frustrati dall’impossibilità di realizzare aspettative di vita personale e professionale congrue alla loro età, fanno i conti con una società che non dà garanzie per il futuro e rende precario e incerto il presente. Spesso a livello psicologico tutto ciò si traduce in insicurezza personale e bassa autostima, incapacità di costruire relazioni significative e di concretizzare legami affettivi importanti in progetti di vita familiare. Non esistono risposte e soluzioni valide per tutti. Queste vanno trovate nell’esperienza unica della persona, nei suoi bisogni, nei valori fondamentali e negli obiettivi di vita a cui dà priorità. |
Dott.ssa M.R. Sireus |
Chi teme il futuro si guasta il presente (L. Schmidt) |
Identikit dei ragazzi sbandati
Identikit dei ragazzi sbandati che si cercano nella bottiglia
Una ricerca del Cnr. Cresce il numero dei teenager italiani che consumano alcolici e cresce la percentuale di quelli che bevono smodatamente e poi si mettono alla guida. |
CRESCE il consumo di alcol tra i giovani, in particolare quello smodato, con relativa ubriacatura. E aumentano quelli che ammettono di guidare in stato di ebbrezza. Queste le novità più preoccupanti emerse dall’ultima indagine su giovani e alcol resa nota oggi e che il Cnr svolge annualmente dal 1999. Dalla prima indagine all’ultima, che si riferisce al 2008, le quote di studenti che confessano una ubriacatura almeno una volta nell’anno sono salite dal 39 al 43%, e dal 31 al 35% quelli che la dichiarano nell’ultimo mese. E si comincia presto e si peggiora con l’età: tra i 15enni il 30% circa dei soggetti di entrambi i generi si è ubriacato almeno una volta durante l’anno, tra i 17enni il 50% dei maschi ed il 41% delle ragazze, e tra i 19enni rispettivamente il 58% ed il 45%. Tra i 15enni, il 23% dei maschi ed il 20% delle femmine si sono ubriacati almeno una volta nel mese. Ancora più preoccupante il dato su alcol e guida: nonostante il 98% degli studenti consideri rischioso mettersi al volante in stato di ebbrezza, lo ha fatto il 15% dei 18-19enni. Nel complesso circa 4.000 studenti, nel 2008, hanno guidato un veicolo dopo aver bevuto, anche in abbondanza, e di questi 550 per dieci o più volte. Eppure gli effetti dell’alcol sono noti agli studenti, sia quelli a breve termine che, in parte, a lungo termine. Chi si metterebbe al volante, con l’auto magari carica di gente, indossando occhiali scurissimi, tappi nelle orecchie e mani e piedi imbrigliati da elastici che ne rallentano i movimenti? Nessuno. Eppure queste sono le condizioni in cui si guida quando si è appena superato il mezzo grammo di alcol per litro di sangue. Gli articoli e i servizi che denunciano l’uso sempre più massiccio e ripetuto di sostanze alcoliche tra i giovanissimi sono numerosi e frequenti. |
Repubblica Arnaldo D’Amico |
*** |
Gli articoli e i servizi che denunciano l’uso sempre più massiccio e ripetuto di sostanze alcoliche tra i giovanissimi sono numerosi e frequenti. Siamo ormai quasi assuefatti dal sentirne parlare soprattutto in relazione a incidenti stradali mortali che vedono come vittime ragazzi, collegati alla guida in stato di ebbrezza. I provvedimenti che si adottano sono quasi sempre collegati a sanzioni punitive legate a pene sempre più severe nella forma, ma forse non nell’applicazione affettiva, per chi guida sotto l’effetto dell’alcol, o a proposito dei recenti divieti relativi alla vendita nei locali di bevande alcoliche ai minorenni. In questo articolo viene ribadito che i giovani conoscono i danni che l’alcool provoca sia sull’organismo sia sull’efficienza alla guida che viene pesantemente compromessa. Ma tale conoscenza non costituisce un deterrente. Una cosa è avere l’informazione che “l’alcol fa male”, diverso è averne consapevolezza. Questo discorso va poi rapportato all’età dei ragazzi presi in esame, gli adolescenti, il cui mondo è tutto concentrato sul “qui ed ora”, sul presente, quando invece è sul discorso “causa ed effetto” sulle conseguenze a breve e a lungo termine che occorre lavorare, al fine di aiutare i ragazzi a sviluppare un pensiero che li proietti nel futuro in termini di progettualità: “cosa oggi io posso fare per costruire il domani che desidero?”. Che ruolo hanno la famiglia e la scuola in tutto questo? Nessuna di queste istituzioni può delegare l’altra, ma il lavoro deve essere sinergico e collaborativo. Spesso la famiglia non vede e talvolta non vuole vedere che il problema riguarda anche il proprio figlio, tanto si sa “queste cose capitano sempre agli altri”… La scuola invece si limita a organizzare sporadicamente l’intervento dell’esperto di turno che arriva e racconta la solita “ramanzina”, e poi forse tornerà il prossimo anno. La scuola e la famiglia devono collaborare in modo costante e continuo nel tempo. E’ importante siano consapevoli del ruolo che assumono nei confronti dei loro ragazzi, che hanno il dovere di educare e formare alla vita. |
Dott.ssa M.R. Sireus |
I maschi scoprono i tradimenti molto meglio delle loro compagne
Ricerca Usa: gli uomini sono infallibili nel capire se la partner è infedele E’ frutto dell’evoluzione, per essere sicuri che la prole sia la propria |
ROMA – A loro non si può mentire, se ne accorgono subito forse perché l’argomento per loro non ha segreti: gli uomini sono molto più bravi delle donne a scoprire se la propria partner li tradisce. La scienza ha individuato e quantificato la peculiare abilità: il sospetto di infedeltà da parte maschile si rivela fondato nel 94 per cento dei casi contro l’80 per cento di casi in cui le donne che credono che il loro uomo le abbia tradite hanno effettivamente ragione. Il professor Paul Andrews della Virginia Commonwealth University di Richmond, negli Stati Uniti ha chiesto a 203 coppie eterosessuali di rivelare in questionari riservati se e quante volte avevano tradito mariti e compagni. I maschi sono risultati più sinceri ammettendo nel 29 per cento dei casi l’infedeltà. Solo il 18,5 per cento delle donne hanno detto di essere state infedeli almeno una volta a mariti e compagni. Allo stesso tempo gli uomini hanno rivelato un sesto senso quasi infallibile nello scoprire le corna, anche se in generale tendono a sospettare maggiormente la loro partner di infedeltà. Dallo studio emerge un altra caratteristica: mogli e compagne sono più reticenti nello svelare certe informazioni. E sono più brave a coprire le tracce delle loro scappatelle, anche se i maschi sono molto acuti, quasi fenomenali, nello scoprirle. I ricercatori, che hanno pubblicato il loro studio sulla rivista Human Nature, azzardano una spiegazione darwiniana di questa “guerra fra sessi”. Sarebbe l’evoluzione a rendere i maschi così sospettosi di possibili tradimenti perché non possono essere sicuri che la prole che accudiscono sia effettivamente la loro. Una forma di autodifesa, quindi. La stessa spiegazione probabilmente potrebbero addurla le donne, per motivare invece la precisione con cui loro, le tracce delle infedeltà, tendono a nasconderle così bene. www. repubblica.it (30 ottobre 2008) |
www.repubblica.it |
*** |
Una delle cose più antiche del mondo, che ha caratterizzato le relazioni di coppia fin dai tempi di adamo ed eva, è proprio il tradimento. Ciò che è cambiato è il modo di viverlo e di confessarlo al partner, così come sono cambiati gli stereotipi legati al tradimento maschile e femminile. La visione romantica del tradimento femminile era quella che sosteneva che gli uomini tradiscono per sesso mentre le donne per amore. Ormai questa può essere considerata superata, visto che le donne, sono sempre più simili agli uomini rispetto al modo in cui si concedono le scappatelle. In generale il tradimento non avviene mai per caso, è nella maggior parte dei casi è l’espressione di un disagio della coppia che non sempre emerge a livello consapevole e che porta uno dei 2 partner a cercare di soddisfare i suoi bisogni emotivi altrove. Non tutti i tradimenti sono uguali, ci sono quelli nei quali si investe anche emotivamente e quelli invece sporadici e disimpegnati da cui non nasce una vera e propria relazione. Proprio da tale distinzione deriva l’eterno dilemma: confessarlo oppure no? Nel caso in cui dal tradimento deriva una relazione che diventa prioritaria rispetto alla precedente il confessarlo è inevitabile. Ma nel caso in cui questo sia stato un episodio isolato “senza conseguenze emotive” che fare? Talvolta il confessarlo è liberatorio per chi ha tradito, ma per l’altro è un fardello pesante da portarsi dietro. Il tradimento spesso entra nella storia della coppia e modifica il modo di rapportarsi dei partners anche quando è “ufficialmente superato” e si voglia continuare a stare insieme. Spesso infatti scattano meccanismi legati ad emozioni forti quali l’avere e dare fiducia, il senso di colpa, la rabbia, il desiderio di rivalsa che non possano essere sottovalutati. Non bisogna perciò pensare che tutto possa tornare esattamente come prima, ma accettare l’accaduto e trovare un nuovo modo di stare nella coppia che partendo da tale esperienza consenta di ricostruire quel progetto di vita che unisce le persone e le proietta insieme nel loro futuro. Esiste poi sempre il “piano B” : negare negare sempre, anche davanti all’evidenza….. |
Dott.ssa M.R. Sireus |
Stipendi più alti ai maschilisti
Usa, i tradizionalisti guadagnano 8.500 dollari all’anno più degli altri. Per le donne situazione è invece opposta |
SE PENSATE che avere ampie vedute in tema di parità tra sessi faccia di voi delle persone migliori, avete ragione. Ma se alla ricchezza interiore preferite quella della busta paga, è meglio che vi fingiate dei maschilisti vecchio stampo. Uno studio americano dimostra infatti una stretta relazione tra la visione dei ruoli di genere e l’ammontare dello stipendio: secondo i dati raccolti dai ricercatori, gli uomini più tradizionalisti guadagnano mediamente molto di più rispetto ai colleghi “illuminati”. Timothy Judge e Beth Livingston, ricercatori del Warrington College of Business Administration dell’Università della Florida, hanno intervistato 12.686 uomini e donne in due momenti diversi, prima nel 1979 – quando avevano tutti tra i 14 e i 22 anni – e poi per tre volte nei successivi 20 anni, l’ultima delle quali nel 2005. A tutti sono state fatte domande semplici e mirate su lavoro, convinzioni etiche e religiose, educazione ricevuta e livello di retribuzione. Judge e Livingston hanno chiesto loro se ritenevano che il posto giusto per una donna fosse la casa, o se credessero che il lavoro femminile aumentasse il rischio di alti tassi di delinquenza giovanile. A pensarla così erano per lo più gli uomini, ma il gap si restringeva progressivamente con il passare degli anni. Dai dati raccolti in 26 anni è emerso che gli uomini americani che credono in una rigida divisione dei ruoli guadagnano in media 8500 dollari in più all’anno; per le donne la situazione è invece opposta: le più tradizionaliste guadagnano in media 1500 dollari in meno rispetto alle altre. In altre parole, se una coppia è conservatrice, il marito avrà un vantaggio economico otto volte superiore rispetto a quelle in cui l’atteggiamento è paritario. “Le persone più tradizionaliste sembrano voler preservare la storica separazione tra lavoro e ruoli domestici: e pare proprio che ci riescano”, spiega il professor Judge. “La cosa più sorprendente è che tutto ciò si verifica anche se nell’attuale organizzazione del lavoro c’è una limpida parificazione dei ruoli”. Secondo la psicologa Magdalena Zawisza, della Winchester University, questo fenomeno può essere comunque giustificato in vari modi: “In molti casi si tratta di uomini che hanno sete di potere e che inseguono la carriera con una grinta maggiore. Il loro atteggiamento e l’indole “machista” li rende più credibili agli occhi del capo. Si tratta di dinamiche che scattano nell’inconscio”. Maria Rita Sireus, psicologa e psicoterapeuta di Modena, spiega anche che “In ogni contesto di lavoro esistono regole implicite e regole esplicite. Spesso le prime si fondano su stereotipi consolidati, legati al ruolo maschile e femminile nella società. Spesso gli uomini con una visione più moderna ed egualitaria vengono guardati con curiosità e diffidenza, come soggetti deboli: basti pensare a quanti di loro chiedono permessi o periodi di aspettativa per prendersi carico degli impegni familiari. Ancora pochissimi, purtroppo”. La ricerca è stata pubblicata sul “Journal of Applied Psychology”, organo ufficiale dell’American Psychological Association, e ha messo in luce dei dati interessanti anche sulla mentalità degli americani in materia di lavoro femminile. Le persone che vivono nelle città del Nord-Est hanno in generale una visione meno tradizionale, e lo stesso vale per chi ha entrambi i genitori che lavorano. I giovani americani guardano alla ripartizione dei ruoli in modo piuttosto moderno, ma diventano maggiormente tradizionalisti col passare degli anni. (22 settembre 2008) |
Repubblica articolo di Sara Ficocelli |
*** |
Dott.ssa M.R. Sireus |
Figli degli Spot: I bimbi crescono in fretta
La pubblicità cambia il loro sviluppo |
UN TRONISTA PER MAESTRO – Derive ineluttabili? «Nessuna epoca è paragonabile a quella che stiamo vivendo. Mai tante intelligenze creative hanno concentrato i loro sforzi sulla manipolazione delle menti. E i minori sono le vittime più facili», denuncia Anna Oliverio Ferraris nel libro La sindrome Lolita, perché i nostri figli crescono troppo in fretta. «Pubblicitari, protagonisti di reality e tronisti stanno diventando gli educatori dei nostri figli – continua la psicoterapeuta dell’età evolutiva -. Nonostante i risultati sotto gli occhi di tutti, non facciamo nulla per proteggere le nuove generazioni. E così i ragazzi crescono troppo in fretta. Senza gli strumenti emotivi per gestire tanta libertà». L’influenza della tv (e degli altri media) sui tweens (la generazione tra i 9 e i 12 anni) è documentata da un florilegio di indagine, test e ricerche. «Il processo di fidelizzazione alle marche comincia già dai due anni», fa notare Oliverio Ferraris. E le vendite dei prodotti rivolti ai più piccoli fanno da cartina di tornasole. Da pochi giorni a Firenze si è concluso Pitti Bimbo e gli addetti ai lavori ammettono per primi che il segmento dell’abbigliamento rivolto ai ragazzi è quello che tiene meglio in un mercato della moda che vive tempi difficili. Stesso discorso per snack e merendine rivolte ai più piccoli. Rita Querzè 02 luglio 2008 |
Corriere della Sera Rita Querzè |
*** |
L’influenza della televisione sul comportamento dei bambini è un tema molto dibattuto su cui psicologi, pedagosisti e pediatri si impegnano per dare delle risposte esaustive ai dubbi dei genitori. L’atteggiamento dei bambini nei confronti del mezzo televisivo dipende dalle abitudini familiari e dalle regole che i genitori ritengono importanti relativamente al suo utilizzo. Per alcuni la televisione è un qualcosa da evitare e c’è chi sceglie di non farla proprio entrare nella vita quotidiana della propria famiglia. Per altri invece talvolta è un surrogato genitoriale che può, all’occorrenza, sostituire un adulto intrattenendo temporaneamente i bambini. Chi ha ragione? La televisione è davvero tutta da bandire? Ha davvero solo un influenza negativa sui nostri figli? C’è qualcosa da salvare? I genitori hanno una responsabilità importante relativamente all’uso che i propri figli fanno della televisione e hanno il dovere di affiancarli e accompagnarli nella fruizione di un mezzo che ormai accompagna la nostra quotidianità. Noi adulti infatti possiamo scegliere COME – COSA – QUANTO far guardare ai bambini in tv . COME: I bambini, soprattutto se molto piccoli, non hanno strumenti per interpretare cosa vedono in tv, e la presenza di un adulto è fondamentale per decodificare i messaggi televisivi e per aiutare i piccoli a distinguere tra realtà e finzione. I bambini non dovrebbero mai essere lasciati soli davanti alla televisione e il genitore deve sempre sapere cosa il figlio sta guardando in quel momento. COSA: Non tutti i programmi televisivi sono uguali, questo ci consente di valutare la gamma dei programmi disponibili e fare una scelta anche in relazione alle peculiarità del nostro bambino, alla sua età, al suo grado di sensibilità e alle sue preferenze. Ci sono dei programmi che più di altri hanno una finalità educativa e didattica, questo può orientarci nella valutazione e nella scelta finale. QUANTO: I bambini hanno bisogno di tanti stimoli, e la televisione deve diventare nella quotidianità di un bambino, solo una delle tante cose da fare e non la sola! I bambini hanno bisogno di disegnare, di giocare all’aria aperta, di ascoltare le storie, di fare dello sport, di stare con i loro coetanei, di stare con i loro genitori, e così via! In una giornata così piena a ricca quanto tempo rimarrà per guardare la televisione? Davvero poco! E’ importante poi ribadire che niente è più bello e attraente per un bimbo che un gioco fatto con il suo papà o con la sua mamma! Questo contributo non vuole dare delle regole, non esistono regole vere e valide in assoluto per tutti, ma solo delle indicazioni di massima, perché nessuno meglio di un genitore conosce il proprio figlio e nessuno meglio di lui può, partendo dall’unicità del suo bambino, sapere di cosa il proprio figlio ha bisogno! Dott.ssa Maria Rita Sireus |
Dott.ssa M.R. Sireus |
Quali sono i motivi piú frequenti che spingono una persona a chiedere aiuto?
I motivi possono essere diversi. Possono esserci sintomi manifesti: ansiosi, depressivi oppure questi sono la manifestazione di crisi personali, familiari o di coppia, in cui le certezze di una vita vengono messe in discussione. La persona per stare meglio deve adeguarsi a situazioni che cambiano e per far questo deve abbandonare vecchi atteggiamenti e vecchi schemi mentali.